Il Plantigrado. L'orso allarga il divario tra chi vive in città e chi in montagna
Con la rubrica “Il Plantigrado” comincia la collaborazione del naturalista Fabio Chinellato con e-gazette. Quale valore ecologico dà l'introduzione del carnivoro in Trentino. Il ruolo della "specie ombrello"
di Fabio Chinellato*
Uno dei temi che più accendono l’opinione pubblica è senza dubbio quello della tutela di alcune specie animali, in particolare se hanno un forte appeal emotivo e se incontrano (inspiegabilmente secondo alcuni) il contrasto da parte delle persone che con quella specie convivono.
Caso esemplare è ciò che accade attorno alla presenza dell’orso bruno (Ursus arctos) sulle Alpi centro-orientali e in particolare nella provincia di Trento, dove la presenza del Carnivoro (definizione sistematica, non ecologica) è stata reintrodotta a cavallo dei due millenni dopo che la pressione umana l’aveva fatto sparire, o per lo meno ridotto a sporadica ed episodica presenza.
La nuova presenza dell’orso in Trentino è stata possibile grazie all’importante progetto Life Ursus che ha previsto, oltre alla reintroduzione in pochi anni di una decina di individui della popolazione slovena-dinarica, anche un lavoro “sulla popolazione umana”, volto a far accettare la presenza della specie in un territorio fortemente antropizzato.
A oltre due decenni dall’avvio del progetto la popolazione di orsi è cresciuta molto (oggi si parla di una popolazione a tre cifre considerando anche i piccoli nati quest’anno) pur rimanendo concentrata nella core-area dell’Adamello-Brenta, zona in cui si trovano quasi tutte le femmine. Questa crescita di popolazione ha portato inevitabilmente a conflitti con le attività umane e a conseguenti azioni (legali e non) che hanno portato alla morte o alla cattura di alcuni esemplari.
Oggi l’opinione pubblica sembra spaccata - tanto per cambiare - tra chi chiede che ogni singolo individuo venga salvaguardato indipendentemente da ciò che succede (tendenzialmente persone che non convivono con la specie) e chi vorrebbe una sorta di “via libera” per gli abbattimenti di questi animali (posizione tendenzialmente più diffusa tra le persone che vivono nella stessa area dell’orso).
Senza scomodare – per ora – i principi tecnici che stanno alla base della gestione dell’orso, vorrei provare a rispondere a una domanda che viene spesso fatta: “Perché dovremmo volere l’orso nelle Alpi? Qual è il suo valore?”
Per quanto la questione sia particolarmente complessa, riesco a individuare due motivi principali.
Il primo è un motivo “culturale”: l’orso sulle Alpi orientali non è una novità, c’è sempre stato ed è sparito nel secolo scorso a causa della pressione dell’uomo che ne ha diminuito gli habitat idonei (oltre a cacciarlo direttamente), dunque per noi la reintroduzione dell’orso è una sfida: siamo veramente in grado di convivere con questa specie? Siamo davvero progrediti rispetto ai nostri bisnonni dal punto di vista della sensibilità ambientale? A queste domande stiamo provando a rispondere “Sì”.
Il secondo motivo, forse più difficile da spiegare in poche parole, è un motivo ecologico, indiretto.
Il valore “ecologico” della specie (orso) è un valore che possiamo definire “indiretto”: l’orso è una specie che ha molte necessità ecologiche per sopravvivere, per riprodursi e per stabilirsi a lungo termine in una determinata area.
Queste necessità sono moltissime, ad esempio la presenza di habitat idonei al riposo invernale, habitat idonei agli spostamenti su grandi distanze (corridoi ecologici), fonti alimentari diversificate, perché l’orso è onnivoro e ha bisogno piante da frutto, bacche, germogli, ma anche proteine di origine animale, in particolare di artropodi (larve di insetti), o carcasse di animali più grandi (ungulati o altri mammiferi) che trova prevalentemente al disgelo. Le prede “vive” sono una frazione minima, ma ci possono essere anche quelle, dunque anche qui ungulati, piccoli mammiferi, magari individui deboli o feriti.
Dunque l’ecosistema che permette la vita dell’orso sarà un ecosistema che consente lo sviluppo di diverse specie vegetali (arboree, arbustive, erbacee), sarà un ecosistema diversificato e connesso a diversi altri ecosistemi, riuscirà ad ospitare artropodi e altri invertebrati (che possono essere fonte alimentare per animali anche diversi dall’orso), ci saranno popolazioni di ungulati. Insomma, sarà un ecosistema complesso e ricco di biodiversità.
Per avere l’orso serve quindi un ecosistema complesso e interconnesso, in grado di fornire risposte soddisfacenti a tutte le necessità della specie (di cui ho fatto un elenco solo parziale). Un ecosistema in grado di accogliere e mantenere vitale una popolazione di orso è un ecosistema complesso e stabile e che – al suo interno, tra le molte necessità dell’orso – riesce a rispondere anche alle più limitate necessità di moltissime altre specie, che dunque vivono e prosperano grazie al complesso ecosistema che accoglie una specie “difficile” come l’orso.
In termini ecologici l’orso si definisce “specie ombrello” perché con le sue necessità “protegge” (come fosse un ombrello) le minori necessità di molte altre specie. Si tratta di un importante concetto ecologico, che crea benefici non sempre visibili.
Questo concetto si adatta a molte specie, in molte parti del mondo, dalle tigri dell’Amur, passando per il giaguaro fino ad arrivare al panda gigante (ma ci sono anche insetti e pesci). Il valore ecologico di queste specie è enorme non perché siano in grado di agire direttamente sull’ecosistema (non in maniera particolarmente pesante per lo meno), ma perché hanno bisogno di ecosistemi complessi.
Mantenere un ecosistema capace di sostenere una specie ombrello significa mettere “al riparo” moltissime altre specie, molte delle quali probabilmente sconosciute ai più.
(*) Dottore forestale, zoologo e naturalista