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Le nuove sfide. Che cos’è la #nospendchallenge e perché fa bene all’ambiente (e non solo)

where Roma when Gio, 14/03/2024 who roberto

Non comprare nulla che non sia davvero indispensabile per un certo periodo: una sfida che aiuta a ridurre l’impatto sul pianeta e a diventare più consapevoli di sé stessi

Spendere poco, o niente. Un obiettivono-spend-challenge.jpg che può diventare un imperativo non solo in caso di grave avarizia o di minimalismo estremo, ma anche per necessità – il costo della vita in tutto il mondo, anche quello ricco, è diventato un problema - oppure, più nobilmente, per ridurre l’impatto sull’ambiente.
In un mondo, virtuale e non, dominato da sfide di ogni tipo, comprese le più sciocche, la no-spend-challenge, ovvero l’impegno preso con se stessi di non comprare nulla che non sia strettamente necessario, si rivela tutt’altro che frivola.
 
Come si fa una #nospendchallenge
La #nospendchallenge è molto semplice, in teoria. Meno in pratica, ma non impossibile. Si tratta di decidere di non comprare nulla che non sia davvero indispensabile per un periodo che può andare da una settimana a un mese o un anno, a scelta. Dalla sfida sono escluse spese quali mutuo, bollette, cibo, medicinali necessari e acquisti che servono (ad esempio, anche un paio di scarpe se va a sostituirne uno vecchio, magari rotto).
I guru consigliano di definire a monte quali siano le cose a cui non si vuole o può rinunciare, e lasciar perdere tutto il resto. Quindi “No” all’acquisto di:
• libri, se ne abbiamo già altri 50 che giacciono in attesa di essere letti (approfittare invece delle biblioteche)
• vestiti e accessori (piuttosto rivisitare l’armadio con abbinamenti nuovi)
• pranzi o cene fuori
• junk food
• creme e cremine in quantità
• bevande che non siano acqua
• elettronica
• media in streaming
• prodotti per la pulizia
• complementi d’arredo
 
L’impatto ambientale degli acquisti
È soprattutto il perché ci si dovrebbe imbarcare in quella che sembrerebbe una scomoda privazione, a dare significato alla sfida. Che infatti non viene portata avanti da persone indigenti (in quel caso si chiama sopravvivenza) ma da persone motivate da altro. Su tutto, dalla difficoltà nella gestione del denaro e dal voler vivere in modo più sostenibile.
Non è un caso dunque che sia in particolare la Generazione Z – quella dei nativi digitali, nati tra il 1997 e il 2012 - ad aver abbracciato la challenge. Una fascia d’età particolarmente sensibile ai temi ambientali e spesso incapace di amministrare al meglio le finanze.
Quanto al primo punto, la sovraproduzione degli ultimi decenni, stimolata anche dal fast fashion, da status symbol stereotipati e ben radicati nella società ma verso cui i giovani sono sempre più insofferenti, insieme ai costi ecologici dei trasporti e del circo di resi e riacquisti, ha fatto sì che il prezzo ambientale sia ormai fuori controllo. E per una generazione attenta al Pianeta come la Gen Z, agire in prima persona viene praticamente da sé.
Per citare la fashion industry, che secondo Greenpeace Germania è la quarta causa di pressione ambientale, la produzione di abbigliamento dal 2000 al 2014 è duplicata: in media ogni persona compra ogni anno il 60% in più di capi, per usarli poi meno di 6 mesi. Perciò, secondo le previsioni, il numero di abiti prodotti oltrepasserà i 200 miliardi nel 2030. Risultato: nel Mondo, ogni secondo un camion di vestiti viene incenerito o gettato in discarica.
Non si può poi non pensare allo shopping online, cresciuto vertiginosamente dopo pandemia e lockdown. In questo caso sono da considerare i costi ambientali degli imballaggi, molto superiori a quelli della semplice busta con la quale usciamo dai negozi fisici, e le emissioni generate dal trasporto dei prodotti, aggravate dall’andirivieni di acquisti e resi che stanno rendendo la situazione un vero girone dantesco. Inoltre, molto spesso il dover risistemare, ri-etichettare, stoccare e rendere di nuovo vendibile l’oggetto rendono più conveniente farlo finire direttamente in discarica. Il reso diventa rifiuto. In sostanza, uno spreco di risorse a 360 gradi. Si parla di numeri importanti: secondo una ricerca effettuata da Deloitte, l'acquisto online genera resi cinque volte di più rispetto al negozio fisico; si stima circa il 40% di restituzioni per l'online contro il 7% nei negozi fisici. Tanto che il 2024 potrebbe essere l’anno dell’addio ai resi gratuiti.
E se, secondo alcune ricerche, l’e-commerce genererebbe invece meno gas serra rispetto allo shopping nel punto vendita, in entrambi i casi i costi ambientali degli acquisti sono molto elevati. Figuriamoci se l’acquisto in questione è superfluo, e dunque evitabile.

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