Bioplastiche compostabili tra i rifiuti organici? Gli impiantisti le promuovono a pieni voti
Il vero problema, secondo gli impiantisti, sono le frazioni estranee composte da plastiche tradizionali, vetro, alluminio e altri materiali.Cinque inchieste video di Biorepack
Le bioplastiche compostabili sono “utilissime per avere un compost di qualità”: è quanto emerge da da una serie di cinque inchieste video realizzate da BIOREPACK, il consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile, nelle quali viene data voce ai gestori degli impianti di compostaggio e di digestione anaerobica. Un viaggio per immagini estremamente utile a chiarire dubbi e far emergere la realtà della gestione del fine vita delle bioplastiche compostabili.
Le preoccupazioni
Dalle risposte emerge che il vero problema per la corretta gestione dei rifiuti organici sono le frazioni estranee composte da plastiche tradizionali, vetro, alluminio e altri materiali. Il motivo? Una raccolta differenziata inadeguata e scarsa informazione dell’opinione pubblica. L’etichettatura dei prodotti è al momento inadeguata ad aiutare i cittadini a capire quali materiali devono effettivamente essere conferiti insieme all’umido e avviati a compostaggio. Le bioplastiche compostabili sono dunque perfettamente compatibili con il trattamento della frazione organica e non costituiscono un ostacolo all’attività di impianti di compostaggio e digestori anaerobici: al contrario, danno un aiuto tangibile per l’aumento di qualità e quantità del compost prodotto.
Le tappe del “giro d’Italia”
Le telecamere di BIOREPACK hanno realizzato nelle scorse settimane un vero e proprio “Giro d’Italia” da Nord a Sud: dal Piemonte alla Puglia passando per il Veneto, l’Abruzzo e la Sardegna. Obiettivo: dar voce ai gestori degli impianti di compostaggio e di trattamento anaerobico che quotidianamente ricevono la raccolta differenziata dei rifiuti organici e devono trasformarli in compost, fertilizzante naturale reso ancor più prezioso dall’impennata dei prezzi degli omologhi chimici ed estremamente utile per rafforzare la transizione verso la bioeconomia circolare, restituendo al tempo stesso sostanza organica ai terreni agricoli italiani, alle prese con un rischioso processo di desertificazione. “Nonostante l’Italia sia da anni il top player indiscusso nel settore delle bioplastiche (da solo il nostro Paese rappresenta un terzo dell’intero comparto Ue), c’è ancora troppa disinformazione e impreparazione sul perché è importante effettuare una corretta raccolta differenziata dei rifiuti organici e perché insieme a loro vanno conferiti anche gli imballaggi in bioplastica compostabile, come sacchetti, stoviglie e cialde per le bevande certificate EN13432. E questa scarsa informazione alimenta pericolose fake news” spiega Marco Versari, presidente di BIOREPACK. “Con questo ciclo di videointerviste abbiamo voluto far parlare direttamente i gestori degli impianti. Sono loro, infatti, che si occupano del fine vita della FORSU (Frazione Organica Rifiuti Solidi Urbani) e delle bioplastiche e sono quindi i testimoni ideali per far luce sui vari nodi del processo di compostaggio. In questo modo, dalla loro voce, possiamo aiutare i cittadini a capire che dall’aumento della produzione di compost e della sua qualità passano molti vantaggi per la collettività, il mondo agricolo e il clima”.
Il vero problema? Gli MNC (Materiali non compostabili)
I cinque impianti visitati da BIOREPACK sono responsabili, tutti insieme, della gestione di oltre 800mila tonnellate di frazione organica ogni anno. Significativo che le loro analisi coincidano sui diversi punti trattati nelle interviste. Unanime è in particolare la denuncia sui problemi causati al loro lavoro dalle cosiddette frazioni estranee. “I materiali non compostabili (MNC) raggiungono percentuali tra l’8 e il 12% dei rifiuti organici conferiti” dice Flaviano Fracaro, responsabile Filiera FORSU di Iren Ambiente, la multiutility che gestisce la raccolta rifiuti nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, La Spezia e Torino. “La maggior parte è costituita da plastiche tradizionali, nonostante la normativa che le vieta abbia ormai più di 10 anni, ma anche da vetro e metalli”.
“La vera sfida è riuscire a eliminare completamente queste impurità, che danneggiano il processo di compostaggio e la qualità del prodotto finale” aggiunge Fabrizio Pilo, amministratore unico di Verde Vita, che gestisce i rifiuti in 15 Comuni del nord-ovest della Sardegna. Secondo Pilo, per raggiungere l’obiettivo è fondamentale la sinergia tra tutti gli attori della filiera. “Devono essere messi a sistema e responsabilizzati per contribuire a creare un percorso virtuoso. La nostra esperienza, ad esempio, ha dimostrato che costruire una rigorosa raccolta porta a porta riduce fortemente il tasso dei materiali non compostabili”.
Etichettatura chiara e lotta contro chi aggira le norme
Accanto al metodo di raccolta dei rifiuti organici, altrettanta enfasi viene posta dai gestori degli impianti sul tema della riconoscibilità dei diversi tipi di materiali, ma anche sull’immissione in commercio - nonostante la direttiva europea SUP ne vieti l’uso dal luglio 2021 - di stoviglie realizzate in plastica non compostabile. “In vendita si trovano piatti in plastica tradizionale classificati come ‘riutilizzabili’ ” denuncia Lella Miccolis, amministratore unico della pugliese PROGEVA. Un modo per sfruttare una controversa lacuna normativa e aggirare il divieto di commercializzazione. “Il problema per noi compostatori è che questi prodotti sono di difficile riconoscibilità per il cittadino. Non sapendoli distinguere, li getta nella raccolta dell’umido insieme alle stoviglie compostabili. La questione di avere un’etichettatura chiara e univoca è cruciale. Si deve capire benissimo, fin dal packaging e dall’ecodesign, quali sono i rifiuti compostabili da conferire nell’organico e quali invece devono essere gettati altrove”.
Bioplastiche? Si comportano come una mela o un pezzo di legno
Tra l’altro - e su questo le risposte degli operatori coincidono alla lettera - gli imballaggi compostabili non creano alcun tipo di problema al compostaggio, anche se questo avviene all’interno di impianti che, in testa al ciclo, hanno la fase di digestione anaerobica. “Il nostro problema è la plastica tradizionale” dice chiaramente Werner Zanardi, tecnico di SESA SpA. “La plastica non c’entra nulla con la bioplastica. Sono materiali diversi, con comportamenti diversi e che devono seguire flussi di recupero diversi”.
Mentre le plastiche sono tra i maggiori ostacoli per ottenere compost di qualità, le bioplastiche sono al contrario un ottimo alleato: “Per le loro caratteristiche, le bioplastiche compostabili si adattano perfettamente al nostro sistema produttivo e vengono trasformate in compost al pari della FORSU” spiega ad esempio Alberto Torelli, amministratore delegato di ACIAM, che gestisce l’impianto di compostaggio più grande dell’Abruzzo.
“Si comportano come altri materiali di origine vegetale” conferma Mario Mongelli, direttore tecnico di PROGEVA. “Le bioplastiche flessibili, come i sacchetti compostabili, sono equiparabili a una mela o a una buccia di arancia, per quanto riguarda i tempi di degradazione. Gli imballaggi rigidi, che comunque rappresentano più o meno l’1% della FORSU trattata, sono paragonabili a un pezzo di legno. Se, alla fine di un primo processo di compostaggio, non dovessero essere ancora del tutto degradate, vengono separate alla fine del ciclo per essere reimmesse in testa”. Un processo virtuoso sotto tutti i punti di vista: ambientale, agronomico, sociale ed economico. “Il compost realizzato - sottolinea Pilo - può essere commercializzato e distribuito a partire dalle aziende agricole dello stesso territorio, costruendo così una filiera corta dei rifiuti organici che porta vantaggi per tutti”.