Ecco perché la Ccs piace così tanto all’industria italiana. Ma resta la questione delle regole
Sono 61 le aziende interessate alla cattura e allo stoccaggio della CO2 mappate da Eni e Snam con l’indagine di mercato relativa al progetto della loro joint venture “Ravenna CCS”, di cui intanto è partita la fase 1. Nel 2027, previa conclusione iter autorizzativo, si avvia la fase due aperta agli energivori della Pianura padana e ai francesi. Il tema delle remunerazioni del servizio e del tavolo ministeriale
Il progetto per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 nei giacimenti esauriti di gas al largo di Ravenna, progetto targato Eni e Snam, sembra piacere all’industria italiana pesante ed energivora, che ha apprezzato questa soluzione, almeno stando ai risultati dell’indagine sul potenziale di mercato di volumi del sistema industriale presentato il mese scorso. Ma se la prima fase dell’operazione è già stata avviata con una seconda prevista tra tre anni per la quale è già stato incominciato l’iter autorizzativo, intanto non mancano le preoccupazioni dal fronte ambientalista sulla bontà tout court dell’operazione su cui scommettono governo e imprese.
L’indagine
A un primo sguardo, sono stati incoraggianti per la JV gli esiti dell’indagine (la trovi qui) sulle manifestazioni di interesse alla Ccs resi pubblici nelle scorse settimane: 61 aziende hanno espresso interesse (non vincolante) al trasporto e stoccaggio a Ravenna Ccs, per un totale di 172 siti industriali (141 dei quali già esistenti più 31 futuri), e i volumi di CO2 sono pari a 27 milioni di tonnellate all’anno al 2030 per arrivare a 34 milioni di tonnellate all’anno al 2040.
Si tratta di stime particolarmente significative, soprattutto se rapportate alla capacità di stoccaggio del sito (stimata in circa 500 milioni di tonnellate), che da questo punto di vista non sembra rischiare alcun sottoimpiego. Già al 2040, infatti, la CO2 complessivamente stoccata dovrebbe superare i 350 milioni di tonnellate, per poi riempire i siti prima del 2050 (anno per il quale le stime dei conferimenti cumulati superano, in linea teorica, i 700 milioni di tonnellate). Le regioni cui fanno capo i maggiori volumi di CO2 che potenzialmente potrebbero essere stoccati sono Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto, mentre per quanto riguarda il sud si segnala soprattutto la Puglia.
L’indagine condotta da Eni e Snam conferma le potenzialità di un mercato particolarmente articolato, assorbito per circa un terzo da impianti per la produzione di energia e per la quota restante a ricomprendere varie tipologie di industrie hard to abate (cemento, calce, chimica, raffinazione, acciaio, vetro, carta, ceramica).
Se il settore più coinvolto è quello della produzione energetica, per il futuro si apriranno nuovi orizzonti anche per le nuove energie provenienti dall’economia circolare che sono particolarmente apprezzate dall’Unione europea che le finanzia: è il caso della cattura della CO₂ proveniente dagli impianti di termovalorizzazione dei rifiuti del progetto Hera-Saipem, grazie al quale verranno stanziati 24 milioni di euro dall’EU Innovation Fund. Anche Eni e Snam, alla luce del fatto che il loro progetto è stato riconosciuto di comune interesse europeo, si sono attivate per i fondi europei del Programma CEF (Connecting Europe Facility), con un’application di 177 milioni di euro. La sola Snam ha poi presentato una richiesta per 69 milioni di euro relativa agli interventi infrastrutturali progettati per gli allacciamenti via gasdotto delle industrie energivore della pianura padana, relativi alla fase 2.
Lo stato dell’arte
Ma a che punto stanno i lavori? Oggi è in atto la cosiddetta fase 1, nel cui ambito si prevede l’iniezione in giacimento di un massimo di 25 mila tonnellate di CO₂ all’anno, catturate dalla centrale Eni di trattamento del gas naturale di Casalborsetti, nel comune di Ravenna. Una volta catturata, l’anidride carbonica viene trasportata fino alla piattaforma offshore di Porto Corsini Mare Ovest, per essere infine iniettata nell’omonimo giacimento ormai vuoto, dove viene stoccata in permanenza a circa 3000 metri di profondità. Al momento, stando ai dati della JV, il progetto sta garantendo un livello di abbattimento della CO₂ superiore al 90%, con punte fino al 96%. A questo impianto si collegherà poi il progetto Ccs Pianura Padana che, sempre attraverso Casalborsetti, convoglierà in giacimento la CO₂ raccolta inizialmente dalle zone industriali di Ferrara e di Ravenna, con una rete di circa 100 chilometri di gasdotti dedicati al trasporto della CO₂, quasi interamente da realizzare, e successivamente anche dal polo industriale di Marghera. Si prevede di stoccare fino a 4 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno entro il 2030, per poi salire fino a 16 dal 2030 in poi, divenendo poi il pilastro di un progetto ancora più grande, denominato Callisto (acronimo di Carbon Liquefaction transportation and Storage) che coinvolge la francese Air Liquide. Callisto prevede la liquefazione e il trasporto via nave della CO₂ raccolta nel polo industriale della Valle del Rodano, Marsiglia e Fos, in Francia, fino ai giacimenti offshore di Eni al largo di Ravenna.
Il coinvolgimento delle imprese
Ma non tutti sono così entusiasti di questa tecnologia, non solo dal punto di vista dell’efficacia ambientale e della bontà economica dell’operazione rispetto a soluzioni concorrenti, ma anche in vista della definizione del quadro regolatorio che dovrà normare il mercato e i servizi della Ccs. L’accusa è che le stesse aziende coinvolte scriverebbero a loro piacimento una normativa che potrà riconoscere le remunerazioni per il servizio offerto. Lo afferma ad esempio ReCommon, organizzazione che ha pubblicato di recente un dossier dal titolo eloquente, ”La falsa soluzione di Ravenna”, secondo cui la normativa che permette lo sviluppo della Ccs in Italia “sancirebbe un palese conflitto di interessi” che vede il ministero dell'Ambiente avvalersi “di società aventi comprovata esperienza nei settori della cattura, trasporto e stoccaggio di CO₂ per la predisposizione di uno studio che strutturi la normativa, nonché la regolazione tecnica, economica e finanziaria della filiera”. In realtà è prassi comune che i ministeri, in presenza di normative complesse da adottare, coinvolgano le aziende nella definizione del quadro regolatorio di un determinato comparto (non solo quello energetico), le quali possono contribuire offrendo informazioni tecniche utili che nascono dall’attività quotidiana. Ad oggi, poi, le norme denunciate non esistono ancora e al tavolo, gestito dal ministero dell’Ambiente, siede anche Arera, l’autorità dell’energia elettrica e il gas, e partecipano anche Confindustria (in rappresentanza degli emittenti) e altre realtà del mondo accademico e della ricerca. Quanto alla questione remunerazioni: oggi l’unico precedente è dato dalla normativa inglese, che ha in effetti scelto un business-model regolato.
Si scrive dunque oggi il futuro della decarbonizzazione dei cicli produttivi energivori sul quale il governo e le imprese scommettono. Un progetto che è già partito e sta suscitando interesse nell’industria ma anche in Europa puntando ad offrire benefici ambientali tangibili con costi economici da considerare con attenzione ma che le economie di scala, nel corso del tempo, potrebbero aiutare a contenere (considerando anche che emettere CO2 costerà sempre di più). Cercheremo di capire meglio, in un prossimo articolo dedicato a questo tema, il valore in termini di decarbonizzazione e i costi delle tecnologie incentivate.