Allarme ghiacciai. Sulle Alpi livelli anomali di radioattività
Uno studio dell’Università di Milano-Bicocca rileva un accumulo di radioattività sulla superficie dei ghiacciai alpini dei Forni, in Italia, e del Morteratsch, in Svizzera, dovuto all’incidente di Chernobyl del 1986 e ai test nucleari degli anni ‘60
La superficie dei ghiacciai registra livelli di radioattività anomali: è quanto emerge dai rilievi effettuati da un gruppo internazionale di ricercatori presso i ghiacciai alpini dei Forni, in Italia, e del Morteratsch, in Svizzera. Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista “The Cryosphere” (https://www.the-cryosphere.net/14/657/2020/tc-14-657-2020.html), ha analizzato la crioconite, sedimento scuro che si accumula sulla superficie dei ghiacciai durante la stagione estiva. Tale sostanza presenta un livello di radioattività più elevato di quanto ci si aspetterebbe di trovare in un ambiente incontaminato come quello dei ghiacciai di alta montagna.
Le misure di radioattività sono state effettuate in gran parte all’Università di Milano-Bicocca, presso il laboratorio di radioattività del Dipartimento di Fisica, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Ambientali e della Terra. Hanno inoltre partecipato allo studio l’Istituito Nazionale di Fisica Nucleare, l’Università di Genova, l’Università Statale di Milano, l’Università di Pavia e altri istituti di ricerca polacchi e inglesi. Dalle analisi è emerso che la crioconite custodisce radionuclidi non solo naturali, come il piombo-210, ma anche artificiali, di cui è possibile desumerne l’origine. Il cesio-137, ad esempio, rivela come le Alpi abbiano subito una forte contaminazione in seguito all’incidente di Chernobyl del 1986. La presenza di altri radionuclidi, come gli isotopi di plutonio e americio o il bismuto-207, è invece riconducibile ai test nucleari effettuati in alta atmosfera negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
Per la prima volta, queste evidenze sono state messe a confronto con i dati provenienti da ghiacciai situati in altri contesti geografici, quali l’arcipelago artico delle Svalbard o i ghiacciai del Caucaso. Dal confronto è emerso che l’accumulo di radioattività nella crioconite è un processo comune a tutti i ghiacciai, indipendentemente dal contesto geografico analizzato. Ciò che cambia, a seconda dell'area geografica, è soltanto la composizione radiologica della crioconite.
L'analisi dei dati ha consentito, inoltre, di ipotizzare quali siano i processi naturali che consentono l'accumulo di radioattività artificiale nella crioconite. Sono le caratteristiche uniche degli ambienti glaciali a permetterlo. In estate, infatti, sulla superficie dei ghiacciai è presente abbondante acqua di fusione prodotta dal ghiaccio formatosi svariati decenni fa. La crioconite è ricca di sostanza organica, a cui molti radionuclidi sono particolarmente affini, ed è allo stesso tempo a stretto contatto con l'acqua di fusione: durante la stagione estiva, dunque, si comporta come un filtro, accumulando le deboli tracce di radioattività presenti nell'acqua stessa.
Sebbene all’interno dei singoli depositi crioconitici i livelli di radioattività non siano del tutto trascurabili, non vi sono conseguenze ambientali e di salute per gli ecosistemi a valle dei ghiacciai, tuttavia ulteriori studi saranno necessari per comprendere gli effetti di tutto ciò nelle aree subito prospicienti ai ghiacciai. “La crioconite - spiega Giovanni Baccolo, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente presso l’Università di Milano-Bicocca - è, inoltre, uno dei materiali naturali più radioattivi che si possano rinvenire sulla superficie del nostro pianeta. Gli unici luoghi dove si trovano livelli di radioattività più elevati sono i siti in cui sono avvenuti incidenti o esplosioni nucleari. A differenza di muschi e licheni, solitamente utilizzati per valutare la contaminazione radioattiva, la crioconite ha mostrato di concentrare la radioattività 10-100 volte di più, a seconda del radionuclide considerato. I risultati ottenuti, dunque, suggeriscono di considerare in futuro la crioconite per studiare il livello di integrità ambientale degli ecosistemi d'alta quota”.